Scopri i 5 portieri più ignoranti degli ultimi 30 anni
Non solo guantoni e grandi parate, ma anche e soprattutto genio e sregolatezza
L’ultimo baluardo a protezione della porta: guantoni, berretto, divisa unica e riflessi da felino.
Bloccare o respingere le offensive avversarie, farsi trovare pronti ad ogni attacco, far ripartire il gioco con mani e piedi e concludere la partita senza raccogliere palloni in fondo alla rete.
Difficile, forse il ruolo più delicato in assoluto perché, spesso, accusato di essere il principale colpevole della sconfitta di una squadra.
Non è facile essere i numeri 1, la pressione è tanta e rischia di diventare insopportabile.
Eppure, nella storia del nostro amato gioco del pallone sono stati proprio loro, i portieri, a risultare decisivi nei momenti risolutivi di una gara e, molti di essi, si sono contraddistinti per una continuità straordinaria di prestazioni al limite dell’eccellenza.
L’Italia fa scuola sotto questo punto di vista, grazie a fenomeni tra i pali quali Buffon, Zoff, Zenga e compagnia.
Ma, come spesso accade, vi sono stati esempi stravaganti tra i pali, estremi difensori le cui azioni principali sono passate alla storia dal lato sbagliato.
“Ignoranti” per il loro essere, in qualche modo, unici in una particolare caratteristica.
Dal numero di maglia a gesta mai viste sul rettangolo di gioco, passando per caratterini poco “cordiali” ed abbigliamenti poco consoni ad una partita di calcio.
Negli ultimi 30 anni ne abbiamo raccolti ben 5 che si, siamo sicuri ricorderete:
Rene Higuita
Partiamo subito fortissimo con il leggendario Re Scorpione.
Folle, eccentrico, sopra le righe.
Un metro e settantadue di genio ed estro applicato al calcio.
Figlio della città di Medellín, il giovane Higuita esordirà nell’Atletico Nacional, club che militerà anche una finale di Coppa Intercontinentale contro il Milan di Sacchi.
Il colombiano è abile tra i pali non soltanto con i guanti ma soprattutto con i piedi, tant’è che non è raro ammirarlo in procinto di scartare un attaccante fuori dalla propria area di competenza, stoppare un pallone di petto o anticipare l’avversario di testa.
Una cosa fuori dal normale, un po’ come battere i calci di punizione e tramutarli in gol.
In Colombia, per questi motivi, si guadagnerà l’appellativo di “Loco”, entrando definitivamente nell’immaginario collettivo nel 1995 quando, in occasione dell’amichevole contro l’Inghilterra, parerà una conclusione di Jamie Redknapp in una maniera mai vista prima.
Sfera che scavalca la propria testa, tuffo in avanti con gambe ben protese verso l’alto e impatto del pallone con le suole delle scarpe.
Viene ribattezzato il “colpo dello scorpione”, e farà in breve tempo il giro del mondo.
La sua vita fuori dal campo, specie se cresci nella Colombia del narcotraffico, sarà segnata da alcuni episodi poco eleganti: nel 1993, ad esempio, farà da mediatore nelle trattative per la liberazione della figlia di un amico, tra l’altro amico anche di Escobar, rapita dai narcos, finendo per essere arrestato e scontare diversi mesi di carcere, i quali gli faranno perdere i Mondiali 1994.
La carriera da calciatore cesserà nel 2009 al Deportivo Pereira cominciando poi, qualche anno dopo, quella da allenatore.
Cristiano Lupatelli
Il numero 10, simbolo della qualità e del talento calcistico, finito sulla schiena dei più forti calciatori che abbiano mai calcato un prato, indossato da un portiere.
Strano, direte voi: eppure è successo davvero.
Proprio qui, in Serie A.
Stagione 2001/2002, Chievo Verona.
Sono i gialloblù di Delneri, una neopromossa che arrivò, dal nulla, a contendere la vetta della classifica alle più blasonate big d’Italia, sfiorando il titolo di campione d’inverno.
A centrocampo, motore e fulcro del gioco è Eugenio Corini, mentre in porta troviamo Cristiano Lupatelli, tanto amato dai fotografi per la mole incredibile di parate plastiche.
Quest’ultimo indossa proprio il leggendario numero 10 ottenuto, spiegherà poi, grazie ad una scommessa vinta con amici.
Nelle due stagioni al Chievo si contraddistingue anche per un look quantomeno bizzarro, caratterizzato da pizzetto e basettoni.
Non di certo il più grande portiere mai visto sulla faccia della terra ma la scelta inusuale di quel numero di maglia lo farà entrare di diritto nel cuore dei tifosi.
Gabor Kiraly
Entrato nella memoria di tutti gli appassionati per ... una tuta grigia.
Si, Gabor Kiraly in campo aveva lo stesso nostro stile la domenica pomeriggio spaparanzati sul divento a guardare la Serie A.
In un mondo come quello calcistico dove sponsor, outfit e apparenza la fanno da padrone, il portierone ungherese ha tenuto a rimanere sempre sé stesso.
Qualunque fosse la maglia indossata, senza esclusione alcuna, la tuta era sempre lì, una presenza costante.
Il motivo? Esatto, proprio quello: la comodità.
Se invece vi steste chiedendo il perché del colore grigio, sappiate che state per imbattervi in una leggenda metropolitana.
Il pantalone indossato, all’epoca, era nero, ma storia narra che la madre, dopo un lavaggio, non fu in grado di riconsegnarli al figlio in tempo prima di una partita, costringendo il giovane Gabor, di fatto, a optare per una tuta diversa color grigio.
Quest’ultima portò bene, dato l’ottimo esito della partita, e da quel momento diventò “fissa”
Il marchio di fabbrica ben stampato nell’immaginario collettivo, unito ad una carriera di buon livello, fecero di Gabor Kiraly uno dei portieri ungheresi più amati della sua generazione.
Loris Karius
Arrivare a giocare una finale di Champions League nella stessa sera in cui una carriera, fondamentalmente, precipita nell’ilarità generale.
È la storia di Loris Karius, buon portiere in forza al Liverpool che la sera di Kiev, giorno 27 maggio 2018, diviene suo malgrado protagonista in negativo, consegnando con una serie di papere la tredicesima coppa dalle grandi orecchie ai Blancos di Zidane.
Succede tutto nella ripresa: al minuto 51 l’estremo difensore tedesco con il pallone ben saldo tra le mani avvia l’azione servendo un compagno, dimenticando tuttavia che tra lui ed il difensore c’era Benzema, che senza alcun problema intercetta e segna a porta vuota.
È già uno dei più grandi errori mai visti in Europa, ancor più grave perché commesso in finale, quando il livello dovrebbe essere alto.
È Mane il primo a “perdonarlo”, pareggiando i conti una manciata di minuti dopo.
Bale con una strepitosa rovesciata trova il raddoppio e Karius, non pago dello sbaglio precedente, decide di regalare al gallese la doppietta.
Conclusione centrale dalla distanza, mani che si intrecciano e non riescono a bloccare il pallone, il quale entra inesorabilmente in porta.
Una sciagura a suo modo indimenticabile.
I tifosi lo scaricano, le offerte non arrivano.
E come se non bastasse, gli strafalcioni diventano tristemente virali sul web, condannando il povero Karius ad un grosso ridimensionamento della propria carriera ma rendendolo un eroe dei social.
Salvatore Soviero
Classe 1973, esperienza nei campi di provincia campana ed un carattere tutt’altro che rilassato.
Una carriera in crescendo, arrivata ad esprimersi discretamente in piazze come Venezia e Messina, ma riconosciuto e ricordato spesso per gesta che poco hanno a che fare con il campo.
Risse, insulti, minacce, litigi.
Gli episodi sono molti, ma uno in particolare si fa largo nel novero dei ricordi.
Venezia-Messina, 2004, Serie B: molte sono le contestazioni sul terreno di gioco, dove le decisioni arbitrali scontentano un po’ tutti.
È Soviero il più imbufalito, tanto che a fine partite corre come un forsennato verso la panchina messinese e colpisce chiunque gli capiti a tiro.
Una violenza incredibile, folle e sconsiderata, difficile da dimenticare.
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