Dopo la sconfitta di Verona, l’Udinese ha comunicato l’esonero di Cioffi. Al suo posto, Fabio Cannavaro, campione del mondo e Pallone d’Oro 2006, uno dei giocatori più autorevoli e vincenti della storia recente del calcio italiano. Non si può parlare altrettanto bene, tutttavia, dei suoi primi anni da allenatore: una supercoppa e un campionato cinese col Guanzhou Evergrande (dove aveva iniziato nel 2014 e incassato il primo esonero l’anno successivo), una promozione in prima divisione col Tianjin Quanjian; in mezzo, una brutta esperienza all’Al-Nassr e due sconfitte come allenatore ad interim della Cina.
Nessuna vera qualifica per giustificare il compito di salvare una squadra a rischio retrocessione, 16 punti in 17 partite col Benevento in Serie B non bastano. Le speranze di assistere ad un De Rossi-bis – traghettatore ribellatori all’etichetta limitante di governo tecnico che si dimostra capace di mettere in pratica un calcio moderno infuso di passione – sono ridotte al minimo. La situazione, certo, è radicalmente diversa e le tempistiche stringenti. L’Udinese spera, probabilmente, che il nuovo mister possa trasmettere per osmosi un po’ della personalità e della conoscenza che ostentava da calciatore.
non crediamo che possa bastare. Cannavaro è soltanto un altro eroe di Berlino 2006 caduto nella trappola del “dopo”, vittima forse dell’illusione che una carriera d’oro da calciatore potesse implicare un radioso futuro da allenatore. Tra i più noti, Andrea Pirlo, che da mister dell’U23 si è ritrovato catapultato alla guida di CR7 e compagni, vincendo comunque Coppa Italia e Supercoppa. Gli sviluppi successivi lasciano pensare che il merito fosse, prevalentemente, dell’organico: un anno sabbatico, una stagione (nemmeno intera) al Fatih Karagümrük, club turco di Süper Lig, e ora la Sampdoria.
A Genova, Pirlo non sta esattamente incantando. Tredici vittorie e altrettante sconfitte che valgono, al momento, l’ottavo posto (e quindi play-off per il rotto della cuffia). Discorso simile per Pippo Inzaghi, capitato sulla panchina del Milan dopo appena due anni di giovanili. Risultato: decimo posto in classifica e tanti saluti, salvo rifarsi parzialmente a Venezia. Una promozione dalla Lega Pro, il sogno Serie A sfumato nel doppio confronto col Palermo. Una parentesi disastrosa a Bologna, la salita e la discesa col Benevento, poi Brescia, Reggina, Salernitana, nulla di memorabile.
Altrettanto variegato, seppur più prestigioso, il percorso di Rino Gattuso. Prestigioso, però, solo a livello di club, non di certo di risultati: tra Milan, Napoli, Valencia e Marsiglia può vantare la Coppa Italia vinta coi partenopei, ma poi due quinti posti in Serie A e due esoneri a stagione in corso in terra straniera. L’expertise dei campioni del mondo sembra applicarsi meglio nelle squadre attrezzate per la promozione dai campionati minori: ci è riuscito Gattuso col Pisa (dalla Lega Pro), ci è riuscito Oddo nel lontano 2016 col Pescara (salvo poi venire malamente allontanato l’anno successivo).
Non una grande avventura quella di Oddo, fatta di tentativi effimeri tra Serie A e Serie B, un paio di retrocessioni sul groppone e vari ripieghi da opinionista televisivo nei periodi di inattività. Ugualmente irrilevante, ad oggi, la carriera da allenatore di Alessandro Nesta, dai due anni al Miami FC ai campionati anonimi, da metà classifica, tra Perugia, Frosinone e – attualmente – Reggiana. Sembrava promettere meglio, invece, il percorso crescente di Fabio Grosso, dopo qualche esperienza fallimentare tra Bari, Verona, Brescia e Sion.
La vittoria del campionato cadetto con tre giornate d’anticipo a Frosinone, la panchina d’argento, poi l’inspiegabile decisione di non rinnovare coi frusinati e di andarsene a Lione, dove verrà esonerato nel giro di due mesi, ultimo in Ligue 1. Due soli reduci dal Mondiale 2006, oggi, siedono saldamente su una panchina di Serie A: uno è Alberto Gilardino, che sta proseguendo con discreti risultati la promozione diretta ottenuta col Genoa la scorsa stagione (firmando dati da record, 48 punti in 21 gare, 2,28 a partita). Ma è ancora presto per giudicare, ha iniziato soltanto nel 2018.
L’altro è Daniele De Rossi, classica eccezione che conferma la regola, sebbene fosse comprensibile lo scetticismo iniziale legato alla scarsa esperienza (17 panchine con la SPAL e soltanto 3 vittorie). A Roma, nonostante la sconfitta casalinga col Bologna (appena la seconda dal suo subentro), sta trovando continuità di prestazioni e risultati, ma avrà ancora tanto da lavorare per vincere la sfida coi suoi compagni campioni del mondo – eroi costretti a confrontarsi con la differenza terrena tra essere allenati ed allenare. Perché la competenza, a differenza della classe, non può essere innata.