Domenica sera il Milan di Stefano Pioli, reduce da una striscia positiva di risultati coronata dalla vittoria schiacciante contro il Rennes, ha una splendida occasione: battere il Monza per superare la Juventus in classifica, piazzarsi al secondo posto e provare a mettere un po’ di pressione a un’Inter molto lontana. Prima della partita, il presidente Scaroni dice ai microfoni di Dazn: “Il nostro obiettivo per quest’anno era qualificarci per la Champions League e mi sembra che siamo sulla buona strada”. Poco dopo, la squadra tiene fede alle scarse ambizioni del proprio dirigente e sprofonda sul prato dell’U-Power Stadium.
Monza-Milan è stata lo specchio di una stagione fin qui controversa sotto tutti gli aspetti per i rossoneri. A cominciare proprio dall’ambito comunicativo, notevolmente disallineato tra i vertici societari – un linguaggio aziendalese, quello di Scaroni e Cardinale, troppo speculativo e dettato da un mindset imprenditoriale molto distante dalla praticità e dalle esigenze del calcio giocato -, l’allenatore (parso più che mai solo al comando, oscillante tra deliri di onnipotenza e improvvisi complessi di inferiorità) e i calciatori stessi, soprattutto i nuovi arrivati.
Pulici, Loftus-Cheek, Reijnders, Chukwueze, Okafor: tutti sbarcati a Milano – dichiaratamente – per vincere trofei. E se almeno i primi tre si sono rivelati ottimi investimenti (anche se dall’olandese, forse, ci si aspettava di più), il duo Moncada-Furlani ha preferito impiegare oltre 30 milioni per due giocatori offensivi anziché tentare di valorizzare o insistere su Brahim Diaz e De Ketelaere, che altrove sembrano rivitalizzati. Ma il vero colpo a sorpresa, disarmante per quanto imprevedibile, è stato il ritorno anticipato di Gabbia dal prestito al Villareal per porre parziale antidoto ai tanti, troppi, infortuni muscolari – un altro tasto dolente.
Insomma, un progetto a lungo termine che, al momento, sembra fine a sé stesso, tenuto in piedi dalla forza di un organico mandato in campo allo sbaraglio e costretto a cimentarsi nell’arte ormai anacronistica e sconveniente del duello individuale, che fu l’arma vincente del tricolore piolista. Ora la cosa è cambiata: non può più contare sui polmoni di Kessié, Tonali o Krunic, ma sulla mente di Reijnders, Bennacer e Adli. Eppure l’impronta è rimasta la stessa, una forzatura sfiancante imposta sugli interpreti sbagliati, con il risultato di essere la nona peggior difesa (31 i gol subiti, perfettamente in linea con gli xGA: 31.64).
Una confusione tattica che sfiora l’autosabotaggio (secondo Understat sono almeno 7 i moduli proposti in questa stagione, ma basterebbe citare i drastici turnover a cadenza quasi incomprensibile) e trova rimedio in quell’asse Theo-Giroud-Leao-Theo che pare l’unico schema consolidato, nell’estro di Christian Pulisic e – talvolta – nell’istinto di Mike Maignan. Un’oligarchia di singoli che si caricano sulle spalle l’intera squadra (e società), sostenendola nella competizione sul lungo periodo e che ora dovranno fare gli straordinari per continuare il percorso europeo: l’Europa LEague, checché se ne dica, non può non essere un obiettivo.