Con Nicolò Barella, è la quindicesima volta che un calciatore italiano compare tra i fantastici trenta in lizza per la vittoria del Pallone d’Oro negli ultimi quattordici anni. Una bella soddisfazione per il ragazzo, meno per la Nazione, che in questa speciale classifica si trova ottava, ad anni luce dalla Spagna (52), dalla Francia (44) e dalla Germania (35). Sopra di noi persino Olanda e Belgio, rispettivamente con 17 e 19 candidati. Lo specchio di un complesso che ha da qualche anno assunto tinte inquietanti per il futuro dei giovani azzurri.
Il Calcio italiano è un sistema malato, siamo d’accordo. L’obsolescenza degli impianti sportivi, l’inaccessibilità di certe scuole, l’anacronismo dei metodi di insegnamento: sono tutte ottime ragioni per spiegare perché da quasi tre lustri si faccia così tanta fatica a sfornare una batteria di campioni a lunga durata. O, banalmente, perché la Serie A sia un prodotto che perde valore commerciale di anno in anno. Poi non c’è davvero da stupirsi se le poche voci fuori dal coro (vedi Roberto De Zerbi) prendono il largo verso ecosistemi sani dove coltivare talento è la norma e non una rarità.
Il risultato è una cultura calcistica dozzinale che ha smarrito la propria dimensione ludica, sostituita da un’ossessione per il pragmatismo e i calciatori ready-made. Abbiamo perso lo stimolo alla formazione, preferiamo importare piuttosto che produrre, vogliamo tutto e subito, salvo poi stringere poco o nulla. È un effetto a valanga che si è ripercosso sui risultati della Nazionale maggiore – che tutti conosciamo – ma anche sulle prestazioni dell’Under 21 di Nicolato, uscito al termine di un girone europeo tutt’altro che proibitivo.
Alla fine, le colpe ricadono sempre sul Commissario Tecnico, ma i problemi stanno a monte. Esempio: quando il Belgio rimase fuori da due Mondiali consecutivi (2006 e 2010), la Federazione rispose investendo 10 milioni degli utili di Euro 2000 nella costruzione di un centro sportivo nel piccolo comune di Tubize, poco lontano da Bruxelles, per farne la casa dei Diavoli Rossi. Ne uscirono anche otto scuole d’élite sparse sul territorio, permeate da una nuova mentalità che privilegia i fondamentali del calcio, la tecnica, il dribbling.
Nel 2013, poi, accadde che una rivista di tutto rispetto come il Telegraph s’innamorasse di un allora ventiduenne Lorenzo Insigne, chiedendosi paradossalmente come mai dalle Academies inglesi non uscissero numeri 10 di egual talento. Venne così stilato l’Elite Player Performance Plan (EPPP), un documento contenente misure volte a potenziare un certo England DNA. In Francia, invece, sono noti da tempo i centres de formation appositamente dedicati alla crescita (valoriale e culturale, prima ancora che calcistica) dei ragazzi.
E in Italia? Niente di tutto questo. O, meglio, le scuole calcio d’élite esistono anche nel Bel Paese, ma si contraddistinguono storicamente per un indirizzo d’insegnamento che privilegia il risultato, la smania di vittoria, la pubertà precoce. Quel che più preoccupa, tuttavia, è che dopo un decennio di fallimenti (tralasciando la fortunata parentesi degli Europei) culminato con la mancata qualificazione ai Mondiali in Qatar, a differenza di quanto accaduto in Francia, Belgio, Inghilterra e pure in Germania, la federazione non ha impresso alcuna svolta decisa, vanificando l’opportunità di cambiamento che spesso deriva da periodi difficili.
Quindi, senza iniziative per lo sviluppo organico e la salvaguardia dei talenti, continueremo a sperare che, da un momento all’altro, emergano i Barella, i Verratti, i Pirlo. Ipotizzare un Pallone d’Oro italiano nel prossimo futuro è pura utopia. Ma il Pallone d’Oro non deve essere il traguardo: semmai, una spinta verso il perfezionamento individuale dei migliori prospetti (quelli, per esempio, che hanno vinto l’Europeo U19 di Malta). Partendo sempre dagli aspetti più positivi, la costruzione di un gruppo coeso che corre per il tricolore e urla a squarciagola dopo l’Italia chiamò.